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MATTEO GIRONI
LA RIPETIZIONE CREATIVA

 

Una spazialità tattile ancor prima che visiva, come si conviene a certe superfici appena increspate, in cui l’occhio chiede certezze alla mano per appropriarsi dell’immagine, caratterizza il lavoro di Matteo Gironi (Verona, 1973). Sia che si sviluppi in forma più propriamente scultorea, nella tridimensionalità del tuttotondo, sia che si comprima all’interno di più modesti perimetri,volge sempre verso una monocromia orientata ora al bianco, ora al nero, accentuando, attraverso la luce, le potenzialità dei due colori-non colori. Il bianco è il colore della luminosità, ma senza tinta e, contenendo tutti i colori si annulla nell’acromia, il nero è (percettivamente) l’assenza di colore: tutto e assenza di tutto affiorano nell’opera del giovane artista veronese per frammenti, per emersioni, per vuoti, concentrandosi in strutture reticolari o nodose apparentemente minimali eppure assolutamente barocche nella loro nascosta complessità, nel loro continuo sfociare e ricomporsi, nel dilagante ordito compositivo. E’ lo stesso Matteo Gironi a scrivere: “non so se il barocco sia per me il punto di partenza o il punto di arrivo, fatto sta che rileggendo il libro Il Barocco in Italia di Dino Formaggio edito da Arnoldo Mondadori nel 1960, mi sembra di leggere il manifesto programmatico della mia arte, con l’eccezione che la ricerca di una rappresentazione dell’infinito ha per me coinciso con l’elaborazione di un linguaggio basato sulla “necessità”; necessità che ho trovato nelle caratteristiche dei materiali che uso. Ma la condizione di necessità mi serve solo ad esprimere quell’emozione per me non ben definibile ma molto simile a ciò che esprime l’arte barocca. Direi che il barocco ha già definito il significato della vita “moderna” come lo è tuttora: l’uomo ha perso un suo centro reale (se non sé stesso) e già comprende di essere parte di un tutto che non riesce a comprendere (cioè né a capire né ad esplorare fino in fondo). La mia arte potrebbe essere definita come una parte di un infinito, un frammento nello scorrere (o nel precipitare) delle cose. L’importante per me è evocare questa emozione al di là del linguaggio usato, anche se ritengo che le forme che creo devono essere vibranti, fisiche, attraenti, forse perché proprio in questo precipizio solo alle forme reali e carnali ci si può aggrappare; le forme perciò sono un veicolo, non sono il fine”. Assistiamo ad un processo in cui il dato manuale pur rimanendo legato all’interno dei “limiti” di un linguaggio ampiamente assorbito dalle ricerche dell’arte moderna e contemporanea, tende a spostarsi in luoghi personali di espressione, creando spazi inesplorati come fossero prospettive possibili, architetture interiori da contrapporre ad una realtà in cui l’abbondanza di strutture è - spesso - sinonimo di caos. Egli attira, cattura ed integra componenti che deformando lo spazio lo rivelano nel collasso dello stesso, così evidenziando il trionfo dell’idea, la forza dell’arte sulla razionalità della composizione. Decisamente belli, gli oggetti di Matteo Gironi, nell’ambiguità del loro predominio fisico - accentuata dalle scelte monocromatiche - esaltano la loro potenza estetica; una potenza che è anche attrattiva: è difficile resistere alla tentazione di toccarle queste superfici, per percepirne la morbidezza e seguire un percorso fatto di assenze e rilievi, di pieni e di vuoti, di rigonfiamenti, di chiara ascendenza spazialista, come può dimostrare l’occhio strizzato all’opera di un Agostino Bonalumi, di un Turi Simeti e, soprattutto, di un Enrico Castellani. Tuttavia Matteo Gironi procede per delicatezze cromatiche (dettate anche dai materiali utilizzati come il feltro e la cera) estranee agli artisti citati, in quanto il suo lavoro evita decisioni nette, aprendosi invece alle molteplici implicazioni emotive, capaci di suggerire arcobaleni immaginifici sia pure nella specificità della cromia tenue che lo caratterizza. Possiamo allora affermare che il processo creativo obbedisce da un lato all’arguzia tecnica, dall’altro alla qualità del sentimento e il risultato, oscillando tra intrusione e integrazione, genera uno spazio che determina, al di là di ogni fredda progettualità, risultati inaspettati che sono poi la cifra stilistica, l’essenza e la vita stessa dell’opera. Per questo, al contrario di tanta produzione astratta o concreta, ogni nuova opera, ogni nuovo ciclo, è il territorio su cui l’artista sperimenta la propria capacità tecnica per volgere le regole a proprio vantaggio: lavorando con abilità e immaginazione per provocare nuove sfide, nuovi confronti, affrontando il limite per superarlo. E regola non significa imitazione ma fertile ripetizione creativa.


Marcello Palminteri


in AreaArte, n.12, inverno 2012/2013, Martini Edizioni, Thiene


 
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