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AFFIORAMENTI
LA FORMA DEL SEGNO NELLA PITTURA DI GIORGIO CELIBERTI

 

Tutta l’opera di Giorgio Celiberti possiede una forza così netta e specifica, da vanificare immediatamente ogni sforzo di classificazione: ricondurre la sua pittura ai termini di realismo o astrazione risulta quanto mai inopportuno poiché si tratta - sempre - di una figurazione espressa per pensiero, per sentimento, svelata da modelli inconsci ma anche dall’innato virtuosismo di un solidissimo mestiere. L’artista procede per strutture e ritmi di rapida percezione, spargendo la superficie di tracce, parvenze, simboli, caricati di fisicità grazie al contrasto cromatico che le contraddistingue. Sembrerebbe che il suo obiettivo sia quello di operare sullo iato plurimo tra natura, idea del naturale e la visione, nelle sue complesse movenze psicologiche, come per isolarne gli impulsi immediati e selettivi, capaci di diventare rappresentazione. Per quanto apparentemente informale, il magma della pittura traccia uno statuto dell’immagine in virtù della presenza di un segno formante che si agita, facendosi persino graffiante: scava, aggredisce, cancella e scrive, sino a quando non si incanala in affioramenti rilassandosi in forme. Per questo l’opera appare solida, compatta, intrisa di fisicità, talvolta persino carnosa laddove maggiore è l’intervento della mano, di quella forza creatrice che plasma e asseconda consistenze e contorni. Così Celiberti cattura lo sguardo, lo invita ad abbandonare l’insieme per volgersi al particolare e a percorrere i sentieri della composizione e attivando nel riguardante l’ansia della decifrazione che impone una lettura, come per ristabilire un codice smarrito o per annunciarne uno nuovo, inedito. E’ sempre il segno ad essere protagonista di questo codice: un segno che è sempre "scrittura" e, come tale, si compone per frasi, successioni, rime, in cui lo scarto e la pausa, come in una composizione musicale, stabiliscono tempi e ritmi. Eppure non siamo mai di fronte ad una attitudine analitica; l’analisi stabilisce una marca ordinatrice ma non inemotiva: indica, semmai, uno spazio in cui porre un sistema di distanze e di rapporti possibili. In questo contesto il segno definisce una figurazione che è solo un grumo grafico, una traccia sostanziale fatta di emozioni, di misurati percorsi, schermi di presenze naturali o di passaggi, in cui importa la capacità di attivare una speciale presenza, come momento di una fluenza plastica da cogliere e da fissare. Allora l’attenzione si sposta verso una dimensione in cui immagine, forma, colore, diventano il tramite di una coscienza del reale; potremmo dire, anzi, che è una labile coordinata che forma una nuova realtà, fatta di suggestioni: evocazione più che dichiarazione, memoria del visto, del visibile e anticipatrice, sintesi di altre immagini (altre realtà …) non ancora definite, eppure possibili. Non racconti (la pittura di Celiberti non è mai didascalica), ma ipotesi (tracce …) che terminano solo quando l’energia del gesto si esaurisce: quando cioè, si aprono all’ambiguità della visione e dell’interpretazione. La pregnanza, la qualità, l’importanza dell’opera di Giorgio Celiberti, maturata in un cinquantennio carico di contraddizioni - com’è è stato d’altra parte tutto il Novecento - , è quella di un artista friulano che ha saputo resistere al plagio, alla seduzione delle mode; il suo lavoro è pertanto il risultato di un modo di essere che annulla le apparenze per andare dritto al nocciolo delle cose, grazie ad una robusta sintesi intuitiva ed intellettuale. Il suo è un viaggio - reale e della mente - alla scoperta del mondo e delle cose; come ha scritto Fabrizio D’Amico: «E’ andato per l’Europa: e ne ha ricondotto "cuori rossi e bianchi, cancellature, elenchi, farfalle, piccole foto, colonne di numeri …". Poi ha guardato il suo Friuli, e vi ha scoperto la crescita osmotica di ‘natura e pietra, di fiumi e di storia’. E infine ha visto che l’una e l’altro stringevano in mano un identico tesoro: quello della vita - dell’uomo, della natura - cui lo scorrere del tempo toglie ferocia e iattanza, e dona in cambio verità. E’ per questo che, ha detto, "a me piacciono, da un gran pezzo in qua, le vecchie cose che affiorano, le scritte sui muri, i muri stessi nelle loro impensabili stratificazioni di tempi, le immagini graffite e rilevate, la presenza dell’uomo, del suo respiro"».


Marcello Palminteri


in AreaArte, n.9, primavera 2012, Martini Edizioni, Thiene


 
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